Per quanto mi sia sempre piaciuto studiare, la programmazione non è mai stata il mio forte.
E così, quella domenica, alle sette e mezza di sera ero ancora con la testa sui libri, studente di quarta elementare, impegnato in una ricerca sul coccodrillo del Nilo, mentre il canale nazionale trasmetteva il secondo tempo di una partita di campionato e mia madre spiattellava di là in cucina. Dopo avere ritagliato e incollato sul quaderno un disegno che riproduceva le fattezze del possente rettile, per acquisire il quale avevo sacrificato un vecchio libro dei miei genitori, mi ero immerso nella lettura dell’Enciclopedia del Fanciullo, che avrei successivamente ricopiato per completare le ricerca.
Almeno: quelle erano le mie intenzioni. Se solo la ricerca non fosse stata interrotta da un avvenimento che, ancora oggi, dopo trent’anni, è sinonimo di paura (e di dolore) per me e per tutti gli irpini: la scossa delle 19 e 35 del 23 novembre 1980.
Il boato enorme, il rumore fragoroso di ferraglia che emana dai pavimenti e dai muri, il servizio buono che cade dalla credenza, il lampadario che schizza da una parte all’altra, mia madre che si precipita ad impedire che il televisore a colori, appena acquistato, si fracassi al suolo, gli sguardi di terrore in un tempo interminabile, lo stipite della porta tra ingresso e corridoio al quale, non so perché, mi aggrappo. Nessuno chiede cosa sia, ché il terremoto si presenta da sé.
Non c’è tempo di finirla, la ricerca. Ci vestiamo in fretta e ci precipitiamo lungo le scale, io e mio fratello saltando i gradini a quattro a quattro. Il palazzo pare integro, salvo alcune mattonelle staccatesi dalla facciata. Mio padre rientra a prendere le chiavi della macchina, i soldi e le coperte. Quando ritorna ci informa che il telefono non funziona.
Ci infiliamo nella Dyane verde, percorriamo Valle e poi Mercogliano, dove facciamo una prima sosta. La scuola è apparentemente al suo posto, ma le suore sono per strada. Cerco di dire a Suor Tarcisia, la mia maestra, che purtroppo non ho potuto finire la ricerca. Giungono vaghe notizie di crolli nel centro storico, a Capocastello. Funziona solo il passaparola, impossibile mettersi in contatto con parenti e amici. Ecco che allora ci dirigiamo al paese. I nonni stanno bene, zii e cugini pure. Ci si accampa nel piazzale del ristorante Cappuccino, nel quale si radunano almeno 6 o 7 famiglie. E’ la sera di domenica, c’è stato un banchetto nuziale, e dunque c’è cibo e ci sono riserve cui attingere. Si accendono i fuochi, si predispongono giacigli di fortuna. Una volta tolti i sedili, la Dyane si rivela capace di ospitare due adulti e due bambini.
Quei bambini che non capiscono esattamente cosa stia succedendo, anche perché neppure i grandi lo sanno, finché nella notte non arriva qualcuno a bordo di una Fiat Campagnola, che racconta di crolli e di morti in città, mentre località remote come Sant’Angelo, Lioni, Conza, cominciano ad entrare nelle cronache dal cratere.
A San Mango è caduto l’intero paese. La casa del Professore De Blasi si è sbriciolata, seppellendo l’anziana madre sotto un cumulo di macerie. La stessa casa cui eravamo diretti quel pomeriggio di domenica, se il caldo insolito per quella stagione, il cielo rossastro e i capricci di Rino e Andrea non avessero convinto i Professori Marinelli a cambiare in corsa i programmi e fare rotta su Salerno, per mangiare un gelato, giocare alle giostre e ascoltare alla radio la cronaca della partita, con l’Avellino che quella domenica surclassa l’Ascoli per quattro reti a due e un Juary in gran forma.
Mesi dopo dalle macerie della collina della Terra riemerge uno striscione verde. Mio zio lo raccoglie e lo mette da parte. Verrà utile nove anni dopo, quando, all’indomani della retrocessione dalla massima serie, con un gruppo di amici ne dipingiamo il retro con la scritta “Risorgeremo!”.