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Piccole grandi soddisfazioni, possibili grazie agli ultimi dieci anni di rivoluzione e vita digitale, impossibili anche solo da immaginare quando il mio idolo da bambino faceva il giro della bandierina dopo un goal.

Lo chiamavano Schiccherò

Mi giunge stamane una notizia triste. 

È venuto a mancare Bruno Abbatini, classe 1938, calciatore dell’Avellino negli anni tra il 1965 e il 1968, per tre stagioni capitano dei Lupi.

Nella foto, lui è il quarto in piedi da sinistra.

Nativo di Genzano, località dei Castelli Romani, cresce nella squadra locale, il Cynthia, dove si mette in luce fino a meritare una chiamata dalla Roma, con cui esordisce in serie A nel campionato 1961/62. Due i gettoni in campionato con i giallorossi.

Ad Avellino Abbatini, centrocampista con una buona attitudine offensiva, approda nel pieno della maturità calcistica, dopo alcune stagioni a Cesena e Padova. Ottantacinque presenze e quindici reti in biancoverde, dice Wikipedia.

Sono le ultime stagioni disputate nel fortino di Piazza d’Armi, campionati a ridosso delle posizioni di vertice, in attesa del grande salto verso la Cadetteria, incorniciati dalle prodezze di cannonieri del calibro di Mujesan, Ive; Cesero.
A Genzano Abbatini è conosciuto da tutti e da sempre con il nomignolo di Schiccherò: i sui tiri potenti erano schicchere. Catose, diremmo ad Avellino.

Ho imparato a conoscere la sua vicenda nelle mie ricerche sui calciatori biancoverdi del passato nativi di Roma e dintorni, o che della Roma abbiano indossato la maglia.

Non ho avuto modo, però, di conoscerlo personalmente. In un paio di occasioni lo abbiamo invitato all’Avellino Club Roma, per il tramite della figlia Monica.

A lei, ai familiari e agli amici di Schiccherò tutto il nostro cordoglio.

Lupi per sempre: il Campione del Mondo e Lorella Cuccarini

Ecco la seconda delle due biografie che ho scritto per Lupi per sempre.

Protagonista uno dei miei beniamini: Paolo Baldieri. Un gran calcatore. Un Campione del Mondo.

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Forse non tutti sanno che nelle fila dell’Avellino, e per di più in serie B, ha militato un Campione del Mondo, uno che il titolo l’ha conquistato con la maglia azzurra, il gemello del goal di Gianluca Vialli. E Roberto Mancini non ha mai vestito il biancoverde.

Lui è Paolo Baldieri, classe 1965, ala sinistra di grande estro cresciuto nella cantera della Roma, e il mondiale è quello conquistato con la Nazionale militare nel 1987. Perché quando la naja era obbligatoria i calciatori non facevano eccezione. In finale contro la Germania Ovest, dopo il vantaggio ad opera di Vialli, Baldieri sigla la rete del definitivo 2 a 0.

Per capire chi è stato Paolo Baldieri calciatore, e in una certa misura chi avrebbe potuto essere, basta fare un giro sulla sua bacheca Facebook. Le immagini in maglietta e pantaloncini sono rare, e quasi si perdono tra le istantanee di spiagge, mare e tramonti del Salento, dove si è stabilito dopo il ritiro. Una foto dai colori sfocati, però, lo ritrae con la divisa grigioverde e il fez da bersagliere: accanto a lui Ciro Ferrara e il solito Gianluca Vialli, due colonne della generazione di fenomeni svezzata da Azeglio Vicini, per trampolino un Europeo Under 21 perso ai rigori contro la Spagna e per grande rimpianto la sconfitta, sempre dagli undici metri, nella semifinale di Italia ’90 contro l’Argentina. Tra questi campioni in erba Baldieri fa la sua sporca figura, con quattordici presenze e nove reti con gli azzurrini, una media-goal pazzesca e il record tuttora imbattuto di cinque reti in cinque match consecutivi.

Dopo due ottimi campionati a Pisa, nel campionato 1986/87 fa ritorno per una stagione a Roma, alla corte di Eriksson. L’anno seguente va in prestito a Empoli, prima di vestire il biancoverde, sempre a titolo temporaneo, per la stagione 1988/89, sulle orme dei vari Lucci, Tovalieri e Di Mauro.

Dopo la retrocessione, i Lupi sono chiamati all’immediato ritorno nella massima serie, e per Baldieri è l’occasione per confermare le promesse non del tutto mantenute. Si parte però con l’handicap: quando viene stilato il calendario, l’Avellino non c’è. “Eravamo solo una X”, è il ritornello che riecheggia nei commenti per mesi e mesi, quando si vince, a sottolineare il miracolo di una squadra costruita in fretta e furia dal presidente Pierpaolo Marino con i denari della Bonatti, e pure quando si perde, a giustificare una compagine che non riesce a prendere quota, mantenendosi a ridosso della zona promozione senza mai davvero dare l’impressione di poterla raggiungere. Dall’anno precedente sono rimasti i vari Di Leo, Murelli, Amodio, Boccafresca, Bertoni. Su quest’ossatura si innestano gli acquisti last minute: gente di categoria come Moz, Pileggi, Dal Prà o Strappa, accanto a veri e propri crack della serie B, con la coppia goal Marulla – Baldieri, con un giovanissimo Francioso per rincalzo. Dal Napoli arriva Celestini e nel mercato autunnale lo raggiunge Salvatore Bagni. In panca c’è Enzo Ferrari, che solo pochi anni prima aveva allenato Arthur Antunes Coimbra, in arte Zico. Alla tredicesima gli subentra Eugenio Fascetti, un mago delle promozioni dalla seconda alla prima serie.

La retrocessione è un rospo difficile da ingoiare, ma all’esordio contro il Taranto il Partenio è traboccante come fossimo ancora in serie A. L’avversario è quasi inedito, ma ispira aspra rivalità, e la gioia per la vittoria per due reti a una supera appena gli sfottò tributati ai tarantini. Io sono in curva, e al piano inferiore con Armando e gli altri abbiamo piazzato il nostro vecchio e nuovo striscione. C’è scritto “Risorgeremo!”, e la scritta l’abbiamo dipinta sul retro di un vecchio striscione recuperato da zio Gaetano diversi anni prima tra le macerie del terremoto. In origine era servito a festeggiare la promozione in A, o forse qualche salvezza.

Baldieri gioca da titolare, ma nella ripresa lascia il posto a Marulla, che timbra la rete del definitivo vantaggio. L’avvio di campionato è fulminante per il compianto bomber di Stilo, mentre Paolino resta al palo, tormentato dal mal di schiena. Segna un solo goal nel girone di andata, a Piacenza, ma gioca bene, dà l’anima, e conquista rapidamente l’affetto dei tifosi.

È un altro calcio, con le partite tutte alla domenica, i due punti per la vittoria, le maglie dall’uno all’undici, i cinque panchinari, la schedina, niente anticipi o posticipi, niente pay tv, e i cori di incitamento per i calciatori e gli allenatori, prima che si prendesse a tifare solo per la maglia. Lorella Cuccarini, che ha lasciato la RAI per i canali di Berlusconi, canta la sigla d’inizio di Odiens, il varietà con Greggio e D’Angelo, ed è subito tormentone: “La notte vola” rimbalza dalla hit parade agli stadi. A Roma, dove c’è Voeller, diventa “Tedesco Vola”, all’ombra del Partenio si canta “Paolo Baldieri, sotto la curva vieni, la rete gonfia ancora, la curva s’innamora”. Un colpo di fulmine che deflagra quando una domenica Baldieri, squalificato o forse infortunato, raggiunge i capi del tifo al centro della Sud per incitare dagli spalti i compagni di squadra. L’amore sembra essere reciproco. Dai miei archivi estraggo una copia del giornalino che in quell’anno veniva distribuito gratuitamente allo stadio, con un breve profilo di Baldieri. L’intervistatore gli chiede quando sia importante l’incitamento del pubblico, e lui risponde: “L’entusiasmo dei tifosi riesce a trascinarmi alla grande, a farmi sentire sicuro, e in questo il pubblico di Avellino è eccezionale, caloroso in ogni partita, mi vengono i brividi solo a pensarci, spero di vincere anche per loro”.

baldieri

Il coro di incitamento risuona specialmente nel girone di ritorno, in cui Baldieri segna cinque reti. Quella contro il Bari di Maiellaro e Matarrese è splendida, un colpo di testa a raccogliere uno spiovente dalla destra. Contro la Cremonese, nello scontro diretto per la promozione a tre giornate dal termine, è lui che mette a segno i due goal del vantaggio con il quale si chiude il primo tempo, ribadendo il rigore di Marulla respinto da Rampulla e bissando con un bel diagonale di destro. Poi l’inattesa rimonta dei grigiorossi e l’addio ai sogni di gloria.

Passeranno ventisette anni, prima che l’Avellino torni così vicino alla serie A, fino alla traversa di Castaldo al Dall’Ara. Ventisette anni che non hanno scalfito il ricordo di uno dei calciatori più talentuosi che abbiano indossato la casacca della nostra squadra del cuore.

Lupi per sempre: Sandro Tovalieri

Non scrivo da molto tempo, insensibile alle sollecitazioni di Fabio, di Ruggero, di Elena.

O meglio, non aggiorno il blog da tempo.

Ricominciamo, allora, con un pezzo che l’estate scorsa mi ha chiesto Felice D’Aliasi per il suo Lupi per sempre, da qualche settimana nelle edicole d’Irpinia e nella mia libreria, qui arricchito con il corredo multimediale minimo che la carta non consente.

Ricominciamo, per vedere di nascosto l’effetto che fa.

A seguire, l’altro pezzo finito nell’antologia, dedicato a un altro ex giallorosso: Paolo Baldieri.

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Diciassette maggio 1987

Lo stadio è gremito in ogni ordine di posto. In Curva Nord i tifosi della Roma si mescolano con quelli irpini. Io sono al mio posto, alla balaustra, a suonare il tamburo, incurante di ciò che può succedere alle mie spalle: con i giallorossi non corre buon sangue.

A sedici anni è così: vivi per il pallone e scegli senza tanto pensarci su. Dopo quattro anni di abbonamenti in Curva Sud, con papà e Andrea, o con zio Gaetano quando papà non può accompagnarci, la stagione sportiva 1987/87 la vivo dalla Curva Nord, affiliato agli Executors, insieme a Franco e Pippo: la tessera bianca con le scritte verdi nel portafogli, il giubbotto di chissà quale materiale sintetico con lo sponsor Dyal sul petto, un paio di riunioni nella sede di via Zoccolari, e l’asta di un tamburo in mano, da suonare la domenica, nell’unica fugace esperienza ultrà nella mia lunga carriera di tifoso.

La Roma è passata in vantaggio in avvio, con un sinistro a incrociare di Bruno Conti che fa secco Coccia proprio sotto la Nord. Per gli ospiti i due punti significherebbero la qualificazione alla Coppa Uefa. Per l’Avellino, invece, la gara conta poco. Con ventotto punti in ventinove partite e la salvezza in cassaforte, l’ultima di campionato vale solo come vetrina, per festeggiare al Partenio una stagione terminata in crescendo, impreziosita da ben quattro vittorie esterne, alcune delle quali roboanti, come il 2 a 6 di Udine. E però i Lupi non rinunciano ad attaccare.

Vinicio ci crede, e a 13′ dal termine toglie Walter Schachner e inserisce Sandro Tovalieri, l’ex di turno. Per l’intero campionato i due si sono disputati la maglia numero 9: Bertoni a destra e il golden boy Alessio a sinistra sono i due titolari fissi dell’attacco biancoverde. Forse proprio la continua altalena ne ha bagnato le polveri: l’austriaco baffuto ne ha segnati quattro, il ragazzo di Pomezia dalla lunga chioma la metà, uno al Milan e l’altro alla Sampdoria, due grandi che al Partenio le hanno sempre prese di santa ragione. Le promesse di inizio stagione, in entrambi i casi, non sono state confermate, e neppure i tabellini delle stagioni precedenti. Vincitore di un Viareggio con la Roma Primavera di Giannini, Di Carlo, Desideri, Impallomeni, Baldieri, poi prolifico cannoniere con Pescara e Arezzo in serie B, al suo secondo campionato nella massima serie dopo l’esordio in giallorosso Sandro Tovalieri segna meno di quanto vorrebbe e potrebbe e di quanto vorrebbero i tifosi, che lo amano.

Eppure bastano due minuti, a Sandro-goal, per rimettere le cose a posto: un angolo dalla destra, e il numero 16 che sbuca di testa in mezzo a un’area affollatissima e gela Tancredi. Il cerchio si chiude e l’esultanza è incontenibile. La corsa verso la Curva Nord è travolgente, i tabelloni pubblicitari scavalcati come gli ostacoli dai cavalli a Piazza di Siena, per terminare l’esultanza tra gli abbracci dei compagni, giusto sotto di me, che grido e sollevo le braccia senza mai abbandonare la mazza del tamburo. Dietro di me i romanisti imprecano.

Pochi minuti dopo, il forcing dei Lupi viene premiato dal raddoppio di Murelli, difensore nell’inedita veste di realizzatore, che segna di testa in mischia.

A fine partita la tradizionale invasione di campo a festeggiare un campionato da record che frutta la nona salvezza consecutiva. L’ultima esultanza per l’ultima permanenza. Almeno finora: ci torneremo, prima o poi ci torneremo.

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Undici giugno 2016

Sono in ritardo sulla tabella di marcia. Tre quarti d’ora e inizia la festa per il terzo compleanno dell’Avellino Club Roma. Tre anni che hanno cambiato il mio modo di essere tifoso: ho trovato una casa comune nella quale vivere da espatriato la mia passione di sostenitore dei Lupi.

Tre quarti d’ora e io sono ancora a Garbatella, a una mezz’ora d’auto da San Lorenzo, dove ci siamo dati appuntamento per i festeggiamenti. Elena ha appena sfornato la terza teglia di pasta al forno, che Michele sta prendendo in consegna, per caricarla con tutto il resto nel capiente bagagliaio della sua auto. Raggiungerà la sede del club prima di me. Perché io sono in ritardo, e non ho ancora fatto la doccia e indossato la T-shirt del club.

Mentre Michele si congeda squilla il telefono. Sul display “Sandro Tovalieri”. Fedele alla parola data, si sta muovendo da Ardea per unirsi ai festeggiamenti, dei quali è ospite d’onore. È in coda sulla Pontina, ma tra poco passerà dalle mie parti e mi supererà. Fra tre quarti d’ora – gli dico – ci vediamo alla stazione Tiburtina.

L’ho contattato qualche giorno prima su Twitter, poi qualche scambio di battute al telefono, pochi sms per invitarlo alla festa. E lui ha accettato subito. Su Amazon ho acquistato una copia della sua autobiografia. Si intitola “Cobra. Storia di un centravanti di strada”. Per me, però, lui è semplicemente Sandro-goal, uno dei beniamini della mia adolescenza. Quattrocentocinquanta presenze in carriera, centocinquanta reti, un terzo delle quali nella massima serie.  Il calciatore lo conoscono tutti, leggendo il libro ho conosciuto l’uomo.

cobra

La doccia è fulminea, in auto brucio qualche semaforo, e il ritardo è colmato. All’appuntamento siamo puntuali, poi di corsa alla festa. I tifosi più stagionati lo guardano con affetto, quelli più giovani con curiosità. I padri spiegano ai figli chi sia quel signore, e che carriera ha fatto. Tra gli ospiti della festa c’è Massimo, tifoso del Cagliari, sposato con un’irpina. Anche in Sardegna Tovalieri ha lasciato goal e ottimi ricordi.

Ci è piaciuto, il Sandro Tovalieri ex calciatore. Un maestro di calcio per tanti giovani talenti del vivaio giallorosso, un uomo dai valori saldi, un antidivo, che ricambia con poche parole e piene di significato il nostro invito e la nostra sete di ricordi. Ha il cuore diviso in tanti piccoli frammenti, tanti quanti la dozzina di maglie che ha vestito. Uno di questi è biancoverde, piccolo ma importante.  Ci racconta di una stagione vissuta con l’emozione della giovane età, dell’atmosfera della città, del tifo alla domenica, di quando alzava gli occhi e vedeva trentamila persone sugli spalti, quale che fosse l’avversario, e si chiedeva se la città nel frattempo non si fosse svuotata. Era la serie A, il patrimonio più grande da difendere. Una categoria che Avellino merita, conclude Tovalieri.

Perchè ci torneremo, prima o poi ci torneremo. E anche lui lo sa.

La macchina del tempo

Il venerdì di Avellino – Cagliari è lungo e troppo poco azzurro, fitto com’è di impegni, che mi allontanano dai tornelli per inchiodarmi al maxischermo. Mentre cerco di non soccombere, mi arriva la telefonata di Massimo, che non è Rastelli, ma un mio compagno di università, anno accademico 1989/90 e seguenti.

Alcune cose, nel frattempo, non sono cambiate. A quarantaquattro come a diciotto anni, io sono dell’Avellino, Massimo del Cagliari. Anche se allo stadio non va più da tempo, di trasferte ne ha fatte, eccome. Di stirpe e di tifo è sardo, e la bandiera con i quattro mori sventola fiera alla Balduina. L’amore gli ha fatto conoscere l’Irpinia, meglio di quanto non gliel’avessi raccontata io mentre gli parlavo di Barbadillo e Dirceu, Baldieri e Sorbello, nei lunghi pomeriggi in sala studio. Ci incontriamo qualche volta, durante le feste comandate, in riva al Sabato. a pochi passi da Abellinum. Segretamente coltivo l’idea di conquistare suo figlio alla fede biancoverde.

Lo invito al Club, lui tentenna, ma infine viene, allegro come sempre. Il Cagliari ha appena pareggiato la rete iniziale dei Lupi. Ci raggiunge poco dopo anche Ruggero, pure lui luissino, ma interista e barlettano. La macchina del tempo esiste e funziona benissimo.

cancedda

Guardiamo la partita e parliamo di ciò che è stato e ciò che è. Gioco a calcio, vado allo stadio, ogni tanto un po’ di Subbuteo: non sono poi cambiato molto, e chissà se è un bene o un male. Chissà pure dov’è finita quella foto che ci ritrae, ventenni, al centro del campo, capitani di un’epica sfida tra Roma e Resto del Mondo. Avevano a disposizione una sola fascia da capitano, la indossammo insieme e contemporaneamente. Con lo stesso spirito con cui abbiamo guardato, uno affianco all’altro, questo Avellino – Cagliari.

Via Piave, 90

Sul più bello, ecco Natale, Capodanno e la sosta di campionato. Stavolta dopo le cinque vittorie consecutive e la sbornia di Cesena.

Succede da qualche anno che il campionato si fermi per qualche settimana dopo il turno prenatalizio. E le strategie per gestire la dipendenza da pallone sono ormai rodate. La principale: il pellegrinaggio in edicola, nei giorni in cui sono ad Avellino. Il menu è ricco: l’album e le figurine Panini, l’almanacco illustrato, sempre della casa modenese, il calendario ufficiale ora dell’Aesse e ora dell’Uesse, quello della Curva Sud da comprare al Bar Broadway. Ma, se la sorte è benevola, ci scappano anche la sfida a Subbuteo o la partitina postcenone.

Stavolta raggiungo il chiosco di San Ciro con un intento preciso: mettere le mani sul libro di Felice D’Aliasi, I ragazzi del ’72, che ripropone l’epopea di quel campionato di serie C stravinto dai Lupi. Una cronaca serrata, che mi consente di (ri)vivere le emozioni della stagione in cui tutto e cominciato.

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Non avevo ancora compiuto due anni mentre l’Avellino stendeva di rigore il Lecce e approdava per la prima volta nella sua storia in cadetteria, al netto della promozione revocata del 1948/49. Prendeva avvio per la nostra squadra una lunga parabola ascendente, culminata nel decennio in massima serie, e scattava per me la scintilla del tifo, poi divampata in incendio.

Abitavamo a via Piave, civico 90. La sala e il corridoio erano invasi da palloni di ogni tipo, con i quali mi esercitavo a calciare indoor e outdoor, nell’ampio terrazzo all’ultimo piano dell’edificio, da cui spesso la sfera precipitava nel cortile. Nello stesso palazzo abitava l’allenatore dei Lupi, mister Toni Giammarinaro. Al piano terra, qualche anno dopo, avrebbe avuto sede lo storico club di Marcantonio Napolitano. Da via Piave a Contrada Zoccolari, dove sorge il futuro stadio Partenio, ci vuole un attimo. Il testa a testa con il ‘Leccione’ accendeva le mie fantasie e mi faceva sentire parte di una storia collettiva che accendeva di entusiasmo un’intera città. Non sapevo leggere, ovviamente, ma già riconoscevo i calciatori dalle figurine. Era sufficiente mostrami gli scarpini, dicono, e io ne indovinavo il nome. Oriali era quello con la scarpa scoperchiata.

Al campo sportivo ci sarei andato per la prima volta solo qualche anno dopo. Mi ci portò mio nonno. Giocavamo contro l’Alessandria, o forse era il Novara. I cancelli della curva nord furono aperti all’intervallo, e così entrammo senza pagare, in tempo per assistere a un secondo tempo d’attacco, nel quale l’Avellino fece sua la partita.

Miniussi, Codraro, Piaser. La formazione l’ho imparata a memoria qualche anno dopo. Con il tempo, però, un po’ l’avevo dimenticata. Palazzese dove giocava? E Zoff, era un mediano o un interno di centrocampo? Dopo aver letto e riletto il libro di D’Aliasi, quella formazione non la scorderò più. Perfino le partite mi sembra di averle vissute. La rete del baffuto Codraro in acrobazia contro la Juve Stabia, rievocata da Angelo Picariello,  ha ora le fattezze del goal di un altro difensore, Gill Voria, contro la Sambenedettese, l’anno che Vullo ci riportò in serie B.

E tutto torna (aspettando Como – Avellino)

Tornare a bloggare per tentare di districare l’intrico di sentimenti.
In treno, direzione Como, nello zaino la sciarpa e lo steccato senza stecche dell’Avellino Club Roma. Lasciata Milano, dai finestrini la Brianza, con i boschi, le case basse e le fabbriche.
A Como ci ho abitato tre anni e questa trasferta è un pellegrinaggio sui luoghi che mi hanno visto poco più che trentenne tentare un difficile equilibrio tra responsabilità e voglia di altrove.
Abitavo a via Diaz, e per me Diaz era Ramon. Prima di andarci a vivere, Como era un passaggio fugace nel tragitto verso la Svizzera nelle concitate settimane dopo il Sisma. Era Corneliusson e Notaristefano, Giunta e Matteoli. Era il goal annullato a Benedetti che l’aveva messa di testa sotto il diluvio in una partita da dentro o fuori: una trasferta che non ho fatto, ma che ho vissuto nei racconti di chi c’era (Enrico, che fine hai fatto?) e nelle immagini di Telenostra. Tifosi irpini in bicicletta sul lungolario e in pedalò sul Lario.
Nel 2004, invece, la trasferta più breve della storia. Il Sinigaglia sta lì, a metri cinquecento da casa mia. Una partita triste, pochi spettatori per la sfida tra ultimi e penultimi. La banda Zeman passa per 3 a 0, ma non gioiamo, condannati come siamo alla retrocessione. Segna Alessio D’Andrea in compartecipazione con Tonino Sorrentino. Un ragazzo dall’accento brianzolo inveisce contro i comaschi: è figlio di emigranti e non se lo scorda.
È un senso di estraneità da cui non sono stato immune. Oggi torno in riva al Lario per fare i conti, separare i ricordi belli e brutti, archiviare questi ultimi. Una bella vittoria e l’ospitalità di Mary e delle ragazze mi rimettetanno in sesto. Più tardi mi raggiunge Elena, e tutto torna.